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La conferenza organizzata dall’associazione Scanderbeg di Parma in occasione del 550° anniversario dalla morte di Giorgio Castriota Scanderbeg, è stata anche un’ottima occasione per rilanciare la figura politica dell’eroe albanese, scoprirne la natura non solo di valoroso condottiero ma di abile coprotagonista della ricerca degli equilibri tra i popoli e i poteri dell’Europa
Si è svolta nei giorni scorsi (sabato 3 febbraio) la conferenza “Giorgio Castriota Scanderbeg – Baluardo della Civiltà Europea” organizzata dall’associazione Scanderbeg di Parma in occasione del 550° anniversario dalla morte dell’eroe nazionale albanese.
Dentro la cornice logistica fornita dalla bellissima Biblioteca Monumentale dell’Abbazia di San Giovanni, hanno potuto offrire un degno excursus storico i due relatori, i giornalisti e ricercatori di storia Virgjil Kule e Loris Catriota Skanderbegh, quest’ultimo discendente diretto di del Eroe albanese, moderati dall’avvocato Gentian Alimadhi. Virgjil Kule, giunto appositamente da Tirana dopo una tournee in diverse città europee tra cui Parigi, Dusseldorf, ha potuto parlare del suo libro storico “Giorgio Castrioti Scanderbeg – l’Ultimo Crociato”, mettendo in risalto altri aspetti dell’eroe diversi da quelli di cui eravamo abituati fino ad oggi. Con l’esposizione della cronistoria anno per anno, si è potuto valorizzare la figura di Scanderbeg nella metà del ‘400 non soltanto quale abile condottiero militare ma soprattutto quale uomo politico e diplomatico capace di ‘internazionalizzare’ la cronaca di un piccolo suo feudo come Kruje in funzione della sua ambizione finale, ossia, opporsi agli ottomani e diventare così Re assoluto di tutta l’Arberia (odierna Albania).
Si è parlato, grazie anche ai vari interventi dal pubblico della aspirata crociata che voleva condurre da leader assoluto nonché della campagna italiana a sostegno del re Ferdinando di Napoli, figlio di Re Alfonso. Loris Catriota, da parte sua, oltre a sottolineare gli aspetti più salienti della carriera militare e diplomatica di Scanderbeg, da buon conoscitore di parte del carteggio elaborato dal suo antenato, ha sottolineato la figura dell’eroe nazionale nella veste di uomo di cultura.
Il numeroso pubblico interessato alle domande da sottoporre ai relatori, ha fatto durare la conferenza per oltre due ore dal suo inizio.
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I Castriota (talvolta anche Castrioto, Castriotto, Castrioti o Casteroti, furono un casato principesco albanese di antichissima origine schipetàra (ossia albanese). Giorgio Castriota detto appunto Skanderbeg (dal turco Iskender a sua volta dal greco Alexander, più il titolo turco "bey" con il significato di "signore"), fu battezzato dal Papa Callisto III “Athleta Christi” e “Defensor fidei” mentre Vivaldi gli dedicò un’opera. Tantissime sono le piazze europee, a partire da Roma, che ospitano la statua dell’eroe nazionale albanese.
Perché Alimadhi ha deciso di battezzare l’eroe nazionale albanese quale “Baluardo delle civiltà Europea”? Perché con la sua lotta alla difesa della sua terra da ogni oppressore è diventato nello stesso modo anche difensore della cristianità quindi Scanderbeg si potrebbe considerare, per dirla con le parole di Donato Oliverio, “un antesignano dell’idea dell’Europa unita”, quella Europa messo così in discussione ai giorni nostri.
D’altra parte, l’Eroe ha speso i suoi giorni in un secolo (metà 1400) dei più complessi della storia dell’Europa, attraversato da guerre fra nazioni e fra dinastie. È il secolo della invenzione della stampa, del contenimento delle aspirazioni ottomane sull’occidente e, sul suo finire, della scoperta dell’America e della nascita del protestantesimo, eventi tutti destinati a determinare il destino dell’Europa che noi stessi, oggi, conosciamo e viviamo.
Di qui, l’apprezzabile intento intellettuale e culturale, di spogliare Scanderbeg dei panni troppo stretti dell’eroe nazionale di un’antica e orgogliosa nazione rimasta tuttavia per periodi troppo lunghi ai margini della grande storia. Le ricerche presentate collocano Scanderbeg a pieno titolo fra i difensori della cristianità dell’Europa.
Al di là delle ragioni di fede, che in questa sede non rilevano, la cristianità è tratto distintivo dei questa nostra Europa, assieme alle conquiste del pensiero razionale, della democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo, che anche dal cristianesimo, attraverso percorsi difficili e contraddittori e a volte sanguinosi, hanno tratto alimento. Ritrovare rilanciare la figura politica dell’eroe albanese, scoprirne la natura non solo di valoroso condottiero ma di abile coprotagonista della ricerca degli equilibri tra i popoli e i poteri nel continente cristiano è operazione di grande interesse e intelligenza.
Interesse e intelligenza storiografica e soprattutto politica, riferita all’oggi e alle prospettive di crescita politica sia dell’Albania che dell’intera Europa. Oggi più che mai c’è la convinzione che i grandi problemi che ci impegnano (dalla pace fra i popoli alla ridefinizione degli equilibri globali, dalla gestione dei flussi migratori alla gestione dello sviluppo tecnologico) non possono che essere affrontati a partire dalla dimensione europea, da costruire sul piano istituzionale come su quello culturale. Un Paese come l’Albania, ancora faticosamente impegnato ad uscire dalle secche di troppi anni di totalitarismo, emarginazione e sottosviluppo debba assolutamente trovare la propria strada nella piena integrazione nel processo di costruzione della nazione europea.
Questa auspicata integrazione passa anche attraverso percorsi culturali, dei quali, questa iniziativa è un bellissimo esempio.
Shqiptari i Italisë
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Kosova feston sot dhjetë vjet pavarësi
Paradossi dell'Albania comunista. Ancora in vita e con un busto di bronzo a lui dedicato. Mevlan Shanaj, noto attore e regista albanese ed il “confronto con il suo busto di bronzo” ad uso cinematografico: quello del personaggio Ibrahim, da lui interpretato nel film della cinematografia albanese della dittatura, “I teti në bronz” – “L’ottavo in bronzo”
Di Adela Kolea
Il culto dell’individuo nell’Albania sotto dittatura raggiunse il suo apice.
La simbologia comunista espressa tra l’altro con erezione di busti e monumenti su piedestalli maestosi per i leader comunisti albanesi, in primis Enver Hoxha, il cosiddetto “padre della nazione albanese”, e quelli appartenenti ai padri fondatori della teoria comunista ed alla sfera mondiale della rispettiva dottrina, quali Marx, Engels, Lenin e Stalin, per il centro della capitale Tirana e per le vie di tutto il paese fu un elemento distintivo di un’ Albania che viveva in totale dittatura.
Sui versanti delle montagne e sulle colline, con dei sassi prescelti e simmetrici bianchi, venivano scritti dei slogan tipici della dottrina comunista che elogiavano il Partito Comunista albanese e l’ ideologia a cui esso si ispirava.
Per giunta, questa atmosfera veniva amplificata oltre che al quotidiano reale, anche nella finzione, cioè in cinematografia.
Senza tralasciare il fatto che la cinematografia albanese degli anni della dittatura ha visto al suo interno attori e registi di altissimo spessore, che il mondo effettivamente ci avrebbe invidiato, occorre considerare che questa cinematografia di mezzo secolo di dittatura - dal dopoguerra, fino nel 1990 - fu nel contempo uno strumento potente nelle mani del regime per manipolare l’opinione pubblica, innalzando la figura dei comunisti e denigrando gli avversari ed i dissidenti del regime.
Di conseguenza, non poteva mancare nella cinematografia, come parte integrante del contenuto indottrinato, anche il fenomeno sopraccitato che rispecchiava il quotidiano: l’erezione dei busti dedicati ai leader comunisti.
Per cui viene costruito appositamente ed eretto un busto di bronzo in un film del 1970, intitolato “L’ottavo in bronzo” anche ad un commissario partigiano dell’Esercito per la Liberazione Nazionale Albanese - esercito, il quale ai tempi della guerra nella realtà aveva come comandante Enver Hoxha - in un ruolo interpretato egregiamente dal noto attore albanese, Mevlan Shanaj.
Ed è qui che dalle cerchie delle sue amicizie e conoscenti nasce e subentra il paradosso a lui riferito, che lo stesso attore e regista ironicamente ci riporta come se fosse un aneddoto: “ A Tirana, le uniche due persone ancora in vita, alle quali è stato dedicato un busto sono il dittatore Enver Hoxha e l’attore Mevlan Shanaj!”
Se quel busto di bronzo potesse parlare…
Quando l’attore albanese Mevlan Shanaj “incontra” il busto di bronzo del suo personaggio del film del 1970.
A sua grande sorpresa ed a distanza di oltre trent’anni, invitato per un’intervista in uno studio televisivo albanese, il regista ed attore albanese Mevlan Shanaj, si trova faccia a faccia, proprio con il suo passato professionale e con il “suo busto di bronzo”.
O meglio, il busto che era servito nel film nel 1970 al ruolo da lui interpretato, fatto a sua somiglianza come attore protagonista, il commissario partigiano Ibrahim. Busto di cui, l’attore aveva completamente perso le tracce …!
In seguito nel 2016, trovandosi per motivi di lavoro nell’archivio di un’istituzione cinematografica a Tirana - in “Alba Studio”- il regista ed attore albanese Mevlan Shanaj, si trova faccia a faccia nuovamente, proprio con il “suo busto” o meglio, con il busto che era servito nel film al ruolo da lui interpretato, fatto a sua somiglianza come attore protagonista, il commissario partigiano Ibrahim.
Devo ammettere che quando avevo visto questa foto ero rimasta molto impressionata.
Anticipo subito che abbiamo a che fare non con una foto semplice, bensì con un fotoracconto.
Il significato di questa foto lo comprendono al volo, soltanto gli albanesi appartenenti alla generazione a cavallo tra gli anni ’70-’80, anni dell’apologia del comunismo in Albania.
Inizierei con la scheda descrittiva della foto.
Cosa rappresenta questa foto:
Periodo: Anno 2016
Ambientazione: A primo impatto, si intravede già che è ambientata nello spazio di un panorama audiovisivo - si tratta di Alba Studio, Tirana - in un archivio di cui scaffali sono stracolmi di scatole metalliche adatte alla conservazione delle pellicole cinematografiche di vari film e documentari.
Soggetti:
Un uomo ed un busto di bronzo!
In fondo, in uno stanzino, c’è un uomo che sembra interagire con un busto, su cui testa ha appoggiato la mano pensieroso e sembra volesse comunicare con quel busto, confidare lui tante verità e riflessioni.
Chi è l’uomo nella foto?
L’uomo ergo, è Mevlan Shanaj, attore e regista albanese di grande spessore e il busto, stranamente è suo! Rappresenta lui stesso! Certo, per funzione artistica e cinematografica.
Per farvi entrare meglio all’interno della vicenda, basta sapere che nel film realizzato durante la dittatura in Albania, precisamente nel 1970, “I teti në bronz” - “L’ottavo in bronzo” , basato sulla sceneggiatura del noto scrittore albanese Dritëro Agolli, sul suo romanzo “Komisari Memo” – “Il commissario Memo”, Mevlan Shanaj interpreta il ruolo del protagonista. Il regista è Viktor Gjika.
Nella trama del film, lui è Ibrahim, commissario - comunista naturalmente - di una squadra partigiana ai tempi della guerra. Molto noto ed apprezzato nel ruolo per le sue doti in campo militare e per quelle da leader, molto amato dai suoi compagni di battaglia. Rimane ucciso in un conflitto a fuoco contro i tedeschi e una volta liberato il paese, nel suo villaggio, viene organizzata la cerimonia del suo anniversario di morte. Questa prassi del culto dell’individuo in dittatura in Albania, la rappresenta anche il film sopraccitato, che nell’anniversario di morte del commissario Ibrahim, nel suo paesino si organizza in sua memoria la cerimonia per l’erezione del suo busto di bronzo!
Quindi, dato che il personaggio protagonista nel film era stato interpretato proprio da Mevlan Shanaj, nel busto era stato proposto lui stesso e questo scatto - il suo “incontro con il proprio busto”fittizio più di trent’anni dopo - rappresenta un momento di riflessione personale dell’artista.
E la loro somiglianza è impressionante!
Informazioni tecniche sul busto forniteci da Mevlan Shanaj:
Anno realizzazione dell’opera: 1969
“Il busto è stato realizzato proprio dagli scultori albanesi più noti del periodo quali, Kristaq Rama, Muntaz Dhrami e Shaban Hadëri. Nel contempo, nel loro studio stava avvenendo la realizzazione del Monumento dell’Indipendenza Albanese eretto a Valona, il quale costituisce tutt’oggi uno dei più grandi monumenti albanesi per dimensione. Gli stessi scultori erano anche docenti della Facoltà delle Belle Arti di Tirana. In quell’anno, quindi nel 1969 io ero studente dell’ultimo anno presso questa Facoltà. Mi stavo preparando per la tesi di laurea con un ruolo da protagonista nel dramma di Bertold Brecht, “I fucili di Madre Carrar”.
I tre scultori, mentre lavoravano insieme nell’opera del Monumento per l’indipendenza Albanese eretto poi a Valona, contemporaneamente tutti e tre lavorarono anche per la realizzazione di questo busto “per me”. Ne avevano prodotto due copie, perché nel caso capitava che durante le riprese del film, una si danneggiasse in modo irreparabile, l’altra doveva sostituirla immediatamente.
Ed è stato qui che dei miei amici e conoscenti ironicamente crearono l’aneddoto: “A Tirana, le uniche due persone ancora in vita, alle quali è stato dedicato un busto sono il dittatore Enver Hoxha e l’attore Mevlan Shanaj!”
Erano anni che non sapevo più niente su quel busto. Quando a distanza di trent’anni dalla realizzazione del film nel 1970, sono stato invitato in uno studio televisivo albanese per un’intervista, me lo hanno portato proprio lì il busto facendomi un’enorme sorpresa!
In seguito, nel 2016, dovendo io stesso preparare un documentario, intitolato “Rrugët”-“ Le strade”, in cui io facevo da voce narrante del contenuto del documentario, andai ad Alba Studio e lì lo trovai! Il busto era graffiato, ma ad ogni modo resisteva bene al tempo … La foto, l’unica che ho di quel momento, è questa che condivido qui con voi.
Mi sta chiedendo la sensazione che ho avvertito quando ho rivisto il busto dopo più di trent’anni?
Tanta nostalgia per il tempo passato, più che altro, per la mia stessa età …”
Quindi, in quell’istante avviene una sorta di introspezione particolare.
Penso che quell’approccio dell’attore, palesemente emozionato, riporti lui indietro nel tempo:
In quel lontano 1970, nel set cinematografico delle riprese di questo film!
In Albania questo ha costituito un film culto alla propaganda del tempo che correva naturalmente, in quanto incarnasse l’esaltazione alla Lotta per la Liberazione Nazionale Albanese effettuata da parte dell’esercito con comandante generale Enver Hoxha, il dittatore che ha tenuto l’Albania per mezzo secolo nel pugno ferreo dittatoriale.
Di conseguenza, veniva acclamata con notevole forza la figura dei partigiani e dei caduti in guerra.
Il rispetto per i martiri di guerra, naturalmente è sacro in ogni contesto o paese. Questo è un fattore indiscusso.
Ma, per quanto riguarda l’Albania, in mezzo secolo di dittatura, bisogna tenere presente che la cinematografia albanese durante quei anni di censura, mentre acclamava i valori dei protagonisti positivi - i partigiani, i comunisti - è stata al contempo uno strumento di diffamazione per i veri antagonisti del regime, con personaggi costruiti ad hoc per denigrare tutti coloro che andassero in contrapposizione alla linea ideologica del sistema totalitario.
Nel film sopraccitato, “I teti në bronz” ( L’ottavo in bronzo), mentre da un lato c’era il protagonista interpretato da Mevlan Shanaj, l’eroe positivo, Ibrahim il valoroso comunista, dall’altro canto l’autore Dritëro Agolli aveva creato il personaggio ridicolo di Sali Protopapa, l’antagonista, il bizzarro esponente del “Balli Kombëtar” (Fronte Nazionale), in forte contraddizione storicamente con i comunisti di Enver Hoxha, riferitosi ad una persona vera, interpretato dall’altro noto attore albanese Pirro Mani.
Proposta per “censura all’inverso” in Albania oggi, in democrazia: L’appello da parte del dirigente dell’Istituto degli Studi dei Crimini del Comunismo di censurare oggigiorno i film del periodo del comunismo, realizzati e proiettati in Albania prima degli anni ’90.
Prendendo spunto da questo, di recente in Albania si è acceso un forte dibattito che ha tentato di mettere in discussione tutto l’operato artistico cinematografico dell’Albania del realismo socialista, dunque ponendo grossi punti interrogativi sul messaggio che il pubblico percepisse in modo arbitrario da quella cinematografia pilotata dal totalitarismo.
In un’ iniziativa che ha preso forma istituzionale, coinvolgendo un grande numero di esperti dell’arte cinematografica albanese, attori, registi e sceneggiatori, rappresentanti dei media, scrittori e politici si chiede di bandire i film del realismo socialista albanese, considerati diffamatori per buona parte della popolazione dell’Albania.
Certamente questa iniziativa ha acceso forti dibattiti in varie sfere artistiche, intellettuali, sociali e politiche albanesi dividendo i pareri in pro e contro.
C’è una parte delle persone - compreso l’iniziatore dell’appello stesso - che sostiene se non di censurare totalmente i film, di tagliarne dei pezzi, di determinare almeno una fascia oraria precisa per la loro trasmissione - per il danno che potrebbero provocare sull’educazione dei minori, delle nuove generazioni, per i messaggi sbagliati che a loro potrebbero pervenire visto i loro contenuti dal forte martellamento ideologico - e l’aggiunta di sottotitoli o spiegazioni sul contesto in cui i film erano stati realizzati, il loro vero obiettivo o messaggio che intendevano trasmettere, seguendo gli schemi della censura comunista.
Il tutto, con lo scopo di evitare l’influenzamento della gente dalla nostalgia per il vecchio sistema totalitario, quindi onde evitare la diffusione dell’epidemia “nostalgici del sistema” e non solo: non infierire ulteriormente con la diffusione di queste proiezioni che hanno al centro delle loro trame la denigrazione dei nemici del sistema comunista del periodo della dittatura in Albania, non girare un coltello sulla piaga, toccando le sofferenze che la gente emarginata e perseguitata dal sistema aveva già subito sulla propria pelle e di quella dei loro familiari nella loro vita reale e non più alla finzione artistica.
E c’è l’altra parte delle persone che crede fermamente che, intento umano a parte, questa iniziativa va contro l’arte stessa.
L’arte non si spiega! Con i film censurati parzialmente, tagliandone dei pezzi o aggiungendone spiegazioni, si offenderebbe in questo modo tutta la categoria degli artisti. Le cose trattate in quei film sono tutte sottintese, non c’è bisogno di spiegazioni … Le ragioni della costruzione di quei determinati stereotipi indottrinati si conoscono bene dagli albanesi.
Le creatività artistiche nonostante si tratti di quelle realizzate sotto la censura in dittatura, portano il marchio del tempo che correva e c’è la consapevolezza di questo da parte di tutti. Naturalmente, non si possono negare l’impegno, il talento nella recitazione, la dedizione di una intera generazione di artisti in Albania, di spessore e che tutto il mondo ci invidierebbe.
In un’Albania in cui il regime precedente totalitario aveva come arma potente accentrata nelle sue mani, la distruzione e l’eliminazione di tutto ciò che andasse contro la sua linea, essendo state distrutte varie fonti di patrimoni artistici, religiosi e culturali albanesi, non si può oggi, in democrazia dimostrare di usare lo stesso meccanismo di distruzione per opere artistiche realizzate nel periodo più buio della vita del popolo albanese, il totalitarismo.
Le nuove generazioni anzi, necessitano di conoscere il trascorso dell’Albania, del contesto di vita dei loro cari e la documentazione televisiva, il patrimonio artistico e cinematografico costituiscono una fonte inestimabile di informazione.
L’arte, con il suo effetto universale, fungerebbe al contrario, da strumento per non dimenticare e non inciterebbe nostalgia per quel sistema da cui ombra, gli albanesi non dovrebbero più avere paura.
Gli albanesi dovrebbero invece affrontare faccia a faccia le sue conseguenze, con la consapevolezza che la storia si conosce più a fondo se si affronta, non evitandola, nemmeno temendo di “intossicandosi” guardando un film indottrinato del passato.
Alla fine, in sintesi questo sarebbe stato anche il parere spassionato di quel busto di bronzo - se avesse potuto parlare - che a distanza di circa quarant’anni, il noto attore e regista albanese, Mevlan Shanaj si è fermato ad osservare con rispetto e stima per il proprio lavoro e per quello di tutti i suoi colleghi artisti albanesi, con l’impressione che entrambi - attore e personaggio/busto - si trovassero d’accordo su un unico fatto: quello che l’arte cinematografica albanese riferita al periodo prima del 1990 non si tocca e che l’arte e la politica sono due cose ben distinte l’una dall’altra.
Per mio stupore, quella coppia di anziani non era formata da una moglie ed un marito! Loro erano invece fratello e sorella!
Avevano passato tutta la loro gioventù, per oltre trent’anni in un campo di internamento comunista, per il fatto che più di trent’anni fa il loro fratello minore aveva oltrepassato il confine con la Jugoslavia, vi aveva subito chiesto asilo politico e si era trasferito immediatamente negli Stati Uniti, ottenendo lo status di rifugiato politico!
Da lì, sarebbe iniziato il calvario di vita nelle prigioni comuniste per il fratello e la sorella rimasti a Tirana.
Loro infatti non si erano mai sposati ed avevano sofferto una vita intera in internamento tra baracche di legno, lamiere e paludi in un villaggio nel Sud Albania …
Di Adela Kolea
Durante la dittatura al potere per mezzo secolo in Albania, con i principi della lotta delle classi, la parità sociale e l’abolizione della proprietà privata, ci si faceva credere di essere “tutti uguali”, o meglio di aver appiattito le differenze sociali tra le persone.
Questo, da un certo punto di vista, nonostante parzialmente – perché i privilegiati e la casta distaccata dalle masse sono sempre esistiti – era vero alla fine, per essere obiettivi.
Ad ogni modo, tempo scorrendo ed io, pian piano crescendo, ho iniziato a pensare che quei palazzi condominiali in cui vivevamo a Tirana durante la dittatura, quelli tutti uguali dell’edilizia popolare della grande azienda “Stato”, uguali sia per l’aspetto architettonico ed edile esteriore, che per quello interiore inerente all’arredamento standard degli appartamenti, con mobili, kilim tradizionali dell’artigianato locale oppure con tende e centrini uguali, contenessero invece una molteplicità di vite vissute, le quali solo in apparenza, sembravano simili l’una all’altra, ma che invece possedevano grandi diversità nel proprio focolare.
Si acclamava una omologazione di stili di vita tra una famiglia e l’altra invece, solo con l’arrivo della democrazia, avremmo preso conoscenza della vera identità di un vicino o meglio:
in un periodo di riserbo assoluto per la privacy altrui, in quanto approfondire sul personale di qualcuno più del dovuto avrebbe comportato gravi conseguenze sulla propria sorte, in silenzio ci si guardava in faccia e l’effetto che ne scaturiva era proprio il paradosso seguente:
mentre da un lato c’era un grande senso di rapporti confidenziali di vicinato - i quali spesso, degradavano addirittura in invadenza a seconda del carattere e della cultura delle persone - dall’altro canto, c’era anche molta riservatezza e rispetto per la privacy di colui che non dava confidenza e che per scelta, rimaneva distaccato dal resto del condominio. Per quest’ultima categoria di persone, sebbene venisse considerata un po’ “la pecora nera” condominiale, per non dire “gli snob”, gli associali, alla fine c’era la consapevolezza – com’è giusto che sia quando l’invadenza no la fa più da padrona – “che avrebbe avuto senz’altro i suoi motivi per queste distanze con il resto dei vicini … “
Tirana, Albania, inizio anni ’90
Il paese agonizzante usciva dalla dittatura di mezzo secolo, i sistemi politici erano appena stati cambiati e la transizione lunga e dolorosa si avviava …
Nell’edificio condominiale in cui abitavo, era venuta da poco ad abitare una coppia di anziani. La donna era sulla sessantina e l’uomo sulla settantina.
Una ragazzina ai tempi, io li vedevo sempre insieme, mentre salivano e scendevano i gradini del palazzo, e se nel contempo, tutti gli altri condomini si dimostravano socievoli, approfittavano di quei momenti in cui ci si incrocia nei pianerottoli, per scambiare delle chiacchiere in compagnia, loro due taciturni, limitati soltanto ad un distaccato saluto di buongiorno o buonasera, in silenzio si chiudevano in casa.
Ribadisco, mi sembravano tanto strani, proprio perché i rapporti del buon vicinato per noi erano una cosa sacra. E questo loro distacco dal resto del condominio non lo legittimava nemmeno il fatto che loro fossero venuti ad abitare nel nostro palazzo solo da poco tempo e non avessero la confidenza consolidata come noi altri, perché tutti cercavano di metterli al loro agio. Ma loro invece non uscivano dal loro guscio…
In quei tempi, solitamente si bussava alla casa del vicino per chiedere un uovo, del sale, dello zucchero, dell’olio, magari dell’olio come quantità, quello pari ad una tazzina da caffè oppure di un bicchierino di raki, tanto era il prestito, perché la gente non ne possedeva per sé di viveri talmente così in abbondanza. Si chiedeva dal vicino anche una tazzina da caffè come misurino, contente dello yogurt bianco, il sufficiente che serviva da fermento per fare lo yogurt in casa, quando non esistevano le yogurtiere, ma si faceva tutto alla vecchia maniera, bollendo il latte ecc ….Il tutto, a seconda delle regole non scritte naturalmente, ma risapute:
solo ed esclusivamente in prestito! Nulla di regalato. Appena si entrava in possesso di quei viveri chiesti in prestito, nonostante in dosi minime, si portavano indietro dai vicini. A queste regole nessuno trasgrediva. La disciplina ferrea dittatoriale, forse anche in questi rapporti, in questi piccoli gesti, si rispecchiava alla fine…
In un’Albania che viveva una forte autarchia, i viveri venivano distribuiti in maniera programmata e misurata da ritirare con un apposito tesserino oppure coupon, in proporzione al componimento del nucleo familiare ed al numero delle persone per famiglia.
Ci si recava dal vicino di casa per guardare un film, cioè dall’unico che in condominio possedesse un televisore, ci si recava dal vicino per fare una telefonata, sempre dall’unico che possedesse un telefono in casa e così via, ci si recava dal vicino per portare un pezzo di carne o un pollo da conservare in frigo, accompagnato da un bigliettino con il proprio nome attaccato nel pacchettino, perché era l’unico nel condominio a possedere un frigorifero e tutti portavano qualcosa da porre nel suo frigo, come se fosse un frigo comune.
Insomma si interagiva, si collaborava e ci si intratteneva molto tra di noi, proprio perché in una fase per l’Albania come quella della dittatura e della cosiddetta parità sociale, c’era più affiatamento tra le persone.
Insomma, questa era un po’ anche la “legge condominiale”, parte integrante di quel meccanismo più complesso quale legge generale etica della condotta dei cittadini.
La curiosità sul mistero del ritegno di quei vicini, nel mio caso, veniva amplificata ancora di più da un altro fattore:
loro, non solo non frequentavano gli altri vicini anzi, evitavano qualsiasi contatto con la gente, erano schivi, ma erano anche soli nel vero senso della parola. Nessun figlio, nipote o parente che li venisse mai a trovare!
Questo costituiva un altro paradosso, in un contesto sociale dell’Albania di quel periodo, in cui le famiglie stesse erano molto legate. I nuclei familiari, anche quelli allargati, vivevano nella stessa casa, sotto lo stesso tetto, anche con più figli sposati e gli suoceri compresi oppure, in rari casi come quelli di genitori che vivevano in case separate, i figli erano comunque presenti, andando a trovare loro frequentemente.
La mia curiosità da adolescente, nel caso della solitudine della coppia degli anziani vicini, aumentava perché se da “investigatrice” innata, escludevo l’esistenza di figli per loro, mi sembrava strano per giunta, che nessun parente si facesse vivo e bussasse alla loro porta. Solitari, loro due vivevano la quotidianità, estraniati dal mondo …
Quelle poche volte che di sfuggita li avevo sentiti parlare con mia madre nel pianerottolo, mi era rimasto impresso il termine che pronunciavano più spesso: “Tribunale!”
Mia madre, riservata anche lei, figuriamoci se ad una ragazzina come me ai tempi, confidasse i segreti dei vicini anziani e misteriosi per eccezione!
Da quel giorno che li sentii parlare con mia madre stranamente, il mio stupore accrebbe, in quanto per l’ennesima volta sentii pronunciare dalla loro bocca il termine ”Tribunale”
Ergo, la parola “Tribunale”in qualsiasi contesto suscita tensione ed ansia, in quanto si presume che la persona che ne sta parlando, abbia problemi con la giustizia o ad ogni modo, con la legge, per cause più o meno importanti, civili o penali.
Immaginiamo il periodo della transizione che l’Albania stava trascorrendo - inizio anni ’90 - in cui, la pronuncia del termine “Tribunale” incuteva maggiore paura anzi, del terrore.
Ed a me, solo l’idea che quella coppia di anziani soli ed indifesi avessero a che fare con guai giudiziari, mi faceva soffrire per loro, sebbene non conoscessi le ragioni.
Mentre buona parte dei vicini li considerava freddi e addirittura antipatici per il distacco che loro tenevano nei riguardi del vicinato, a me non so perché, facevano tenerezza. Non posso negare che la mia curiosità nel sapere qualche dettaglio in più della loro vita, andasse in proporzione diretta con la loro discrezione.
Tant’è vero che, vedendoli un po’ smarriti ed essendo che vivevano nel nostro condominio da poco, nella mia testa avevo creato la convinzione che loro non conoscessero nemmeno la nostra città Tirana, presumendo venissero da fuori città, per cui un bel giorno, quando li avevo incrociati nel pianerottolo, mi ero addirittura resa disponibile a far loro da guida per la città!
Ma loro, gentili come sempre, con poche parole concise mi avevano risposto ringraziandomi in primis per la mia disponibilità, che Tirana la conoscessero perfino troppo bene!
Per un’ulteriore volta mi avevano lasciata spiazzata!
Ma come era possibile che loro conoscessero così bene Tirana? Non avevo sentito casualmente che si erano appena trasferiti da un villaggio sperduto del Sud Albania? Oppure avevo sentito male?
Insomma, mi avevano turbata talmente tanto con la loro condotta ed il loro cupo atteggiamento - sempre e comunque, impenetrabili ai nostri occhi curiosi - che non sapevo più distinguere ciò che avevo sentito oppure no sul loro conto, ciò che eventualmente potesse essere vero e ciò che invece la mia testa elaborasse come frutto di fantasia …
Conferme su verità a lungo celate
Passando solo qualche mese, venni a sapere tutto e tutti i nodi sui miei dubbi od insinuazioni su di loro, si sciolsero …
- Sì, avevo sentito bene: loro erano stati trasferiti a Tirana da un villaggio sperduto del Sud Albania, in cui era stato allestito uno dei più tremendi campi di internamento del comunismo.
- Sì, avevano ragione: Tirana la conoscevano persino troppo bene, esattamente come mi avevano affermato, in quanto loro erano proprio originari di Tirana. A Tirana si trovava la loro bella casa, una villetta in proprio, non come il nostro palazzo comunale, una casa da cui loro erano stati prelevati più di trent’anni fa per poi essere deportati nel campo dell’internamento, dove avrebbe iniziato il calvario della loro vita.
- Sì, la parola “Tribunale”, pronunciata di frequente da loro quando parlavano sottovoce con mia madre, l’avevo sentita giusto. Al Tribunale, tra il 1990 ed il 1991, con il cambio dei sistemi, loro ci andavano molto spesso perché avevano naturalmente fatto causa per ottenere indietro la loro vecchia casa, di loro proprietà, la quale era stata occupata da degli sconosciuti, i quali se n’erano ingiustamente impossessati quando i veri proprietari pativano le pene dell’inferno nei campi di internamento e non c’era verso per riconsegnarla a quei legittimi proprietari, ex-internati e vittime del regime totalitario.
- No! Per mio stupore, quella coppia di anziani non era formata da una moglie ed un marito! Loro erano invece fratello e sorella!
Avevano passato tutta la loro gioventù, per oltre trent’anni in un campo di internamento comunista, per il fatto che più di trent’anni fa il loro fratello minore aveva oltrepassato il confine con la Jugoslavia, vi aveva subito chiesto asilo politico e si era trasferito immediatamente negli Stati Uniti, ottenendo lo status di rifugiato politico!
Da lì, sarebbe iniziato il calvario di vita nelle prigioni comuniste per il fratello e la sorella rimasti a Tirana.
Loro infatti non si erano mai sposati ed avevano sofferto una vita intera in seguito in internamento, tra baracche di legno, lamiere e paludi in un villaggio nel Sud Albania …
Solo con l’arrivo della democrazia - inizio anni ’90 - avevano finalmente lasciato il campo di internamento, in cui avevano sofferto tutta vita per essere fratelli di un evaso dalla “prigione Albania” e diventato rifugiato politico negli Stati Uniti! E a che prezzo!
Li avevano fatti arrivare a Tirana, nella loro città e nel frattempo che seguivano le sedute giudiziarie infinite al Tribunale per l’ottenimento della loro casa di proprietà usurpata da altri - casa di cui non disponevano più nemmeno un documento di proprietà, perché gli sciacalli che se ne erano impossessati avevano fatto sparire oppure falsificato tutto - li avevano proposto questo piccolo monolocale in affitto nel nostro condominio! Solo provvisoriamente!- li era stato detto, ma temevo che quel “provvisoriamente” sarebbe stato un limite temporale molto lungo invece …
La prima volta che li vidi sorridere e forse, un po’ più propensi a fermarsi con gli altri vicini a salutarsi ed a scambiare due parole, fu quando carichi di valigie, li notai scendere le scale del condominio. Li avevo pure dato una mano a portare giù i bagagli.
Un taxi li attendeva fuori, nella piazzola antistante il condominio. La prima domanda che mi venne spontaneo porre loro, fu:
“Traslocate, signori? Avete finalmente ottenuto indietro la vostra vecchia ed amata casa?”
Con un mezzo sorriso, ricordo come ora l’espressione stanca dei loro volti, mi risposero:
“No, cara. Purtroppo la strada per l’ottenimento del diritto sulla nostra casa di proprietà è ancora lunga e ci vedrà ancora per un po’ dietro i banchi del Tribunale, invece, la strada che stiamo per fare oggi è molto lunga anche essa, ma per noi, significa “Vita nuova”. Andiamo all’aeroporto, stiamo per partire per gli Stati Uniti d’America, andiamo a trovare il nostro caro fratello, fuggito dall’Albania più di trent’anni fa!”
Mi vennero i brividi.
Nei loro occhi c’era un misto di commozione per il ricongiungimento con il fratello dopo una separazione lunga una vita, dopo un calvario di vita trascorso in un campo mostruoso albanese comunista di internamento, pagando loro sulla propria pelle per la sua fuga, c’era dolore e stanchezza per le sofferenze subite, per il fatto che un’intera parentela per paura di subire le conseguenze, li aveva abbandonati, per la casa che avevano perso, per la gioventù persa soprattutto, ma ad ogni modo, l’amore fraterno prevaleva su tutto!
E solo l’idea della libertà a cui stavano per assistere, gli dava forza per andare avanti.
Augurai loro buon viaggio, con la promessa che un giorno - non sapevo nemmeno io quando con esattezza – su di loro avrei scritto.
Dico questo perché, non li vidi mai più, in quanto in quell’anno confuso di inizio transizione per l’Albania, loro partirono ergo, per gli Stati Uniti ed io e la mia famiglia, intraprendemmo l’altra strada di emigrazione, l’Italia.
Migliaia di albanesi emigrarono. Tra l’entrata da parte loro nelle ambasciate straniere accreditate in Albania e l’assalto ai porti, l’esodo albanese sembrava un vulcano in eruzione …
Ecco perché sottolineavo all’inizio, che quelle nostre palazzine, apparentemente uguali e serene dall’esterno, al loro interno contenevano molteplici realtà, anche tra le più inaspettate.
E con l’inizio della transizione, il mio palazzo, mi sembro come uno scrigno magico, colmo di verità mai dette e celate, che si svuotava pian piano. Si liberava dal peso di alcuni suoi misteri e si alleggeriva anche del peso della sua gente che emigrava all’estero.
Mi sembrava uno scrigno di curiosità il mio palazzo, o meglio:
il vaso di Pandora appena scoperchiato.
E quanti palazzi come quello esistevano in città ed in tutta l’Albania!
Quanti contenuti di vasi di Pandora da lì, avrebbero scosso le vite di tanti albanesi.